Dimmi chi sei e ti consiglierò una pettinatura: le nuove frontiere della psicologia.

di Roberta Cacioppo

Un giorno mi chiama una giornalista e mi chiede: “può creare una sorta di test a scelte progressive – con una struttura ad albero – il cui responso porti la lettrice a essere consigliata su un taglio di capelli adatto alla sua persona?”

Prima reazione: mi viene in mente il bellissimo “Edward mani di forbice”.

Seconda reazione: mi dico “keep calm e non essere precipitosa”.

Quale correlazione ci può essere tra un taglio di capelli e dei tratti di personalità?

Io non lo so.

L’aspetto che meno mi convince è l’aspetto anticipatorio: mi viene chiesta una sorta di previsione: “dimmi chi sei e ti consiglierò un taglio”. Quasi mi sgomenta.

La giornalista cerca un professionista vero per creare un test: mi sembra un buon modo per esprimere fiducia e considerazione per la scientificità dell’apporto che posso dare in quanto psicologa professionista.

Tuttavia, mi trovo di fronte a un incarico impossibile – 4 tagli di capelli collegati ad altrettante città del mondo, da associare a tratti della personalità -; compito che diventa anche paradossale: la giornalista non può ancora fornirmi le foto in questione, cioè anche volendo non posso nemmeno immaginare di stimolare la mia fantasia per inventarmi qualcosa di sana pianta.

So che esistono settori della psicologia che si occupano di abbigliamento: si tratta di una forma di comunicazione non verbale, tra le tante, e la pettinatura può essere considerata una delle sue manifestazioni, in quanto modalità attraverso la quale mostriamo noi stessi al mondo esterno.

Googlando scopro anche all’estero esiste lo psicologo della moda: ne studia i fenomeni sociali e il ruolo nello sviluppo della percezione della propria immagine corporea, e di conseguenza approfondisce come l’individuo percepisce se stesso, le proprie emozioni e i propri vissuti psicologici, il rapporto con gli altri, i codici di lettura tra identità personale e sociale. Fioccano interpretazioni su taglio, permanente, lunghezza dei capelli, tinta.

Continuando a cercar online condivido alcune delle tematiche che scovo, quanto meno per averle toccate con mano in prima persona, ma mi sento comunque un po’ perduta.

Fino a che punto il lettore di riviste di intrattenimento è consapevole del fatto che si tratti di svago e non di scienza? In queste situazioni, la psicologia ingenua (detta anche “del senso comune”) funziona a meraviglia nel creare associazioni mentali che poi diventano rocce incrollabili, e i correlati meccanismi dissociativi rendono perfettamente plausibile che accanto alla consapevolezza che si tratti di un giornale perfetto per rilassarsi in poltrona, c’è la brama di portarsi a casa nuove autoconsapevolezze e nuovi modi per migliorare se stessi.

Come può uno psicologo lavorare per “migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace” (art. 3) nel momento in cui gli vengano posti dei quesiti impossibili? Ricade una richiesta del genere nel limite delle mie competenze? (art. 37) sono una psicologa decorosa e dignitosa se scrivo di certi temi? (art. 38)

Se non esiste letteratura nel merito, come posso fare riferimento a fonti scientifiche? (art. 5)

Un test su una rivista femminile di intrattenimento può essere considerato uno strumento psicologico? In tal caso lo psicologo ne è responsabile, per quanto attiene ad “applicazione ed uso, dei risultati, delle valutazioni ed interpretazioni che ne ricava.” (art. 6). Quanto possono essere considerate attendibili le mie valutazioni? (art. 7)

Sto contribuendo allo sviluppo delle discipline psicologiche (art. 34), oppure mi sto facendo una scadente campagna promozionale?

Insomma, alla fine ho gentilmente declinato l’invito, ma non senza premurarmi di chiedere ad altri colleghi. Un paio ci sarebbero stati, ma solo a patto di usare uno pseudonimo. A mio parere: una scelta deontologica svilente.