di Mauro Grimoldi e Anna Barracco
Questa è la storia di un uomo che non voleva morire. Come tutti gli uomini. Ma è anche la storia di come, in particolare, gli psicologi hanno trovato un curioso modo di continuare a esistere anche dopo la morte. In forza di una norma. Come può una simile sfida escatologica, l’immortalità umana, essere legata a un articolo del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani?
- La privacy come sfida di confine
Il 17 è un articolo del codice deontologico degli psicologi importante e complesso. Stabilisce l’obbligo alla “segretezza delle comunicazioni” che “deve essere protetta anche attraverso la custodia e il controllo di appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma, che riguardano il rapporto professionale”.
Un principio embricato e in sinergia con gli obblighi in tema di privacy fissati dal GDPR del 2018, sempre più complicate che cercano di attuare un diritto proprio nel momento in cui questo è più violato e i dati personali sono commercializzati come merci dai social networks e dai colossi della rete. E’ il paradosso del proliferare di norme sempre più bizantine attorno a ciò che non è regolamentabile, ma solo contornabile. Più ci proviamo, e più vediamo che le nostre vite sono esposte e quasi solo i querulomani cercano di prendere davvero sul serio le vie regolamentari. Ovvero, lo fanno i perversi, che cercano di lucrare sulle tortuosità della legge.
Le istituzioni, in questi casi, cercano di regolamentare e di controllare, ma si trovano a cementare una forma di delirio di controllo su ciò che di fatto non è controllabile, di forzare il limite.
Nel caso concreto, per fortuna le procedure disciplinari prevedono, come per tutte le leggi, i regolamenti, i codici, all’interno di un’istituzione democratica, la presenza di un contraddittorio, che culmina in un dialogo vivo, in presenza. Quando le cose vanno bene, quando il Giudice è prudente, sa che il mantello che porta sulle spalle (virtuale o reale) serve a metterlo al riparo dall’eccesso di potere, dall’idea di agire con il proprio braccio, mentre è lì, in un crocevia, semplicemente a secernere una goccia di giustizia all’ombra della legge.
Quando questa consapevolezza non c’è, quando gli apparati anche burocratici delle istituzioni perdono la dimensione del limite, accade ciò che vediamo dalla cronaca. Cartelle esattoriali di 0,01 euro emesse con raccomandate, procedure a carico di persone decedute o anche le tante ingiustizie quotidiane, trattamenti uguali per esigenze diverse, grigi burocrati che esibiscono piccole arroganze nascondendosi dietro uno sportello pubblico.
- Il paradosso estremo, la sanzione post-mortem
Il nostro articolo 17 si spinge però oltre ogni possibile colonna d’Ercole nel suo secondo paragrafo, e ci regala – un po’ implicitamente – uno scorcio di eternità: “Lo psicologo deve provvedere perché, in caso di sua morte o di suo impedimento, tale protezione sia affidata ad un collega ovvero all’Ordine professionale.”
Il Codice Deontologico chiede cioè a ciascuno psicologo di affidare i propri appunti, materiali, dati sensibili, in caso di proprio decesso. È un’operazione che dovrebbe riguardare tutti i colleghi e che invece è ampiamente disattesa. Perché?
Partiamo da una fantasia comune. Sul divano dello psicanalista si scopre che molti fantasticano sulla propria eternità. Sognano cioè di costituire l’eccezione alla cappa nera che ci sovrasta, al destino biologico che ci determina, all’impermanenza universale. Una realtà dura, quella del decesso, un limite invincibile, che appiattisce tutti, come la neve che cancella le forme del mondo ne “i morti” di James Joyce: “Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e tutti i morti”.
Non vi è mai stata eccezione. Anche Leonardo, anche Dante, anche Einstein. Perfino Freud. Tutti morti. Non si comprenderebbe per quale oscuro merito personale ciascuno dovrebbe pretendere di essere il primo, l’eccezione alla regola. Eppure sembra essere questo il grido muto del coro umano: io no. I nostri pazienti in fondo non ci credono. Non moriranno. Perché noi, loro curanti, dovremmo? Perché quando ogni respiro, ogni pulsazione, ogni desiderio del corpo sembra negare cocciutamente, pervicacemente l’ultimo limite? Epicuro lo diceva benissimo: “ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa”.
Il tempo della vita, prima della morte, è il tempo di una battaglia per la causa del proprio desiderio, anzitutto di continuare a vivere, di illudersi di essere l’eccezione, di confermare la certezza di essere vivi e sfuggire all’acuta sensazione dello scorrere del tempo. Lo psicologo agisce quindi nel mondo, nega la morte, attraverso la Cura heideggeriana, in senso filosofico come anche clinico.
Ma l’articolo 17 non ci sta. Incurante di Epicuro come di Heidegger, l’Istituzione si erge come Moloch e richiede il sacrificio delle difese indivduali. Il Codice Deontologico vorrebbe che lo psicologo fosse sempre consapevole del proprio destino, dell’esiziale fragilità del proprio essere, in un costante ricordo del proprio destino mortale: memento homo quia pulvis est, et pulvis reverteris (liturgia cattolica che riprende Genesi, 3, 19)!
Poiché, a proposito di polvere, questa tende a fare paura (I will show you fear in a handful of dust, si legge nella Waste Land di Eliot) pochi colleghi di fatto si interrogano così puntualmente su ciò che avviene dopo la propria dipartita, pochi si soffermano sul memento mori.
Il paradosso assume connotazioni comiche domandandosi come eseguire la sanzione per il mancato rispetto di questa parte del Codice Deontologico, perché è evidente che nel caso esecrabile che un collega fosse in violazione del II paragrafo dell’articolo 17, egli dovrebbe essere certamente deceduto. Polvere. Polvere colpevole di non aver lasciato disposizioni su cosa fare dei propri appunti. L’Istituzione onnipotente non si ferma a quello che appare meno di un dettaglio. Morire non è quindi scriminante. Può apparire un caso di scuola, ma così non è. L’Ordine Psicologi della Lombardia ha ricevuto almeno un esposto, o quello che poteva considerarsi tale, a carico di un collega che si trovava ormai tra i più, nella “lunga tratta di gente ch’i mai credetti che tanta morte n’avesse disfatta” (Dante, Inferno, c.III)
- Il delirio dell’istituzione
L’istituzione “buona” si potrebbe anche poter misurare dalla capacità di cogliere questi aspetti folli, questa dimensione di “tutto pieno”, di mancanza di un punto vuoto. Ogni istituzione che non voglia diventare totalitaria deve poter preservare questo vuoto, attorno a cui far ruotare, rendere viva e feconda la relazione con l’insieme delle persone che la compongono. Ogni presa di posizione “talebana” che si fermasse sull’applicazione della norma, trasformerebbe il rischio (che purtroppo è spesso un rischio calcolato) di un eccessivo appesantimento burocratico in un vero e proprio delirio paranoide di controllo. Non per niente tanti deliri collettivi, anche oggi, si sviluppano attorno alle strutture di controllo pervasive che appaiono per via della globalizzazione, sganciate, sradicate da una logica di comunità, di cittadinanza: il dibattito sui vaccini, i deliri sul 5G, tutte le strane idee sull’Ordine del Mondo. Sono costruzioni che rilevano della perdita di fiducia, della perdita di patto relazionale fra chi ha la responsabilità di informare, educare, comunicare, e la comunità dei cittadini, fra la polis e chi la abita.
Anche l’art. 17, nel suo piccolo, nel momento in cui si spinge fino a regolamentare la condotta dei colleghi anche oltre la loro stessa vita, nel cercare di dire qualcosa, di alludere, forse anche giustamente, a questa eredità, a questa responsabilità, a questo impossibile, cade nel grottesco, nel ridicolo, perché dire qualcosa di questo nostro dovere “dopo di noi”, è forse dell’etica, della poesia, riguarda semmai l’eredità come trasmissione, non è dato da una norma; un procedimento disciplinare post mortem non è che una beffa terribile, un orrore, oppure una barzelletta.
- Linguaggi e totalitarismi istituzionali
L’articolo 17 si illude di estendere i propri tentacoli sanzionatori perfino oltre la morte fisica, suggerendo all’istituzione il proprio delirio. Eppure, disporsi a rispondere ad un capo di incolpazione, lo si dovrebbe avere presente, lo si fa in vita. Responsabilità e rispondere hanno la stessa radice etimologica.
Rocco Ronchi, in un saggio intitolato “Parlare in neolingua. Come si fabbrica una lingua totalitaria”, raccolto nel volume “Forme contemporanee del totalitarismo”, a cura di Massimo Recalcati, scrive: “La lingua vivente è sempre qualcosa d’altro che un semplice mezzo di scambio (…) Il virus totalitario infetta, insomma, un corpo, quello del linguaggio, che già nel suo stato normale è predisposto ad accoglierlo”. Riferimento bibliografico: R. Ronchi “Parlare in neolingua. Come si fabbrica una lingua totalitaria” in M. recalcati. Forme contemporanee del totalitarismo”, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
Primo Levi ci dà testimonianza della lingua impoverita, ridotta ad un insieme di comandi, del totalitarismo e dei campi di sterminio, una lingua ridotta a puro atto illocutivo, a puro comando. Una lingua che elimina la ridondanza e l’oscillazione, quella lingua odiosa, cui si fa ancora oggi riferimento in ogni lingua europea, a ormai settant’anni dalla shoah, ogni volta che si voglia canzonare un atteggiamento prepotente (“Rauss”, “Kaput”). Il linguaggio dell’istituzione totalitaria inibisce completamente le oscillazioni, le ambiguità, che al contrario raggiungono l’ampiezza maggiore e la maggiore ridondanza nel linguaggio perlocutivo, che è quello del poeta. Nel totalitarismo, la dimensione illocutiva è massima. Il carisma si ottiene sentenziando, non esitando.
Al contrario, il linguaggio come strumento di scambio, la possibilità di sintonizzarsi, e di non parlare a senso unico, contiene sempre aree di oscillazione, ed è possibile solo se ci si dispone in un dialogo fra soggetti viventi. Il Tiranno, il Burocrate e la Macchina, sono le tre figure della post-modernità, ci dice Recalcati. (Rif. Bibliografico Recalcati, “Elogio dell’inconscio”). Sono appunto quelle figure che annullano la relazione e parlano a senso unico. Il messaggio si fa a senso unico, le parole sono pietre, le oscillazioni ridotte a zero.
Quando si riesce a mostrare l’inconsistenza dell’Altro, anche nei momenti in cui non possiamo che sottometterci ai suoi eccessi (e a volte è così, anche questo è fare i conti con i nostri limiti) quando si riesce a sottrarsi un poco all’ ingombro del Super Io, ecco che si producono effetti inaspettati. Effetti che possono essere un richiamo alla revisione del Codice Deontologico, quando in un suo articolo, l’art. 17, si evidenzia una scheggia di follia, in cui l’onnipotenza dell’istituzione cortocircuita con l’illusione di immortalità del genere umano, producendo effetti perlocutivi che vanno dal perturbante al comico. Far balenare l’intrinseca e inconsapevole ironia che è possibile estrarre dalla lettera del secondo comma dell’art. 17 è, nell’intento di noi scriventi, anche un modo per fare appello e sottolineare l’importanza della soggettività dei consiglieri nell’esercizio concreto del loro potere, al loro senso del limite, che è anche la fonte della nostra libertà di professionisti, che si riconoscono parte di una comunità in quanto soggetti al vincolo deontologico. Non c’è libertà senza limite, ma non c’è limite che non contempli eccezione e che non possa essere ogni volta interrogato, contestualizzato, mitigato. E’ questo il ruolo, veramente difficile, di chi incarna le funzioni simboliche. Che sia il genitore, il Giudice, il Consigliere, il Responsabile di Servizio. Incarnare queste funzioni implica umiltà, tenacia, rispetto, coraggio e capacità di stare nella speranza. Il motto di spirito libera risorse libidiche dalla gabbia del super-io e permette di fare appello alle nostre parti vitali, e per ciò stesso creative. Il processo che porta dalla colpa alla responsabilità non è possibile senza prima sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda.